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giovedì 24 novembre 2011

Ponti e Cemento

Fino ai primi anni dell' '800, chi governava Genova si è ben guardato di andare a costruire nelle aree di esondazione dei due grandi torrenti, a ponente (Polcevera) e a levante (Bisagno) della città. 

Dal periodo romano fino al 1700, il territorio urbanizzato si è progressivamente ampliato ma le mura della città si sono tenute a debita distanza da questi corsi d'acqua, rigagnoli per lunghi mesi durante la stagione estiva, ma alle prime piogge capaci, da sempre, di fare disastri.

Ovviamente questi due torrenti non hanno mai impedito commerci e collegamenti ai quali provvedevano fin dall'alto medioevo lunghi ponti. Uno, in particolare è storicamente ben documentato da tempi lontani: è il ponte di  Sant'Agata che, con le sue 26 arcate in pietra, permetteva di attraversare il Bisagno anche in piena.

Ma anche così il torrente e le sue aree di esondazione erano utilizzate, fin da epoche remote, in un modo che oggi si definirebbe sostenibile.

Nel greto del Bisagno, dalla foce fino all'attuale quartiere di Marassi, era tutto un susseguirsi di campi coltivati ad ortaggi che, a loro volta,  rifornivano la città di verdure fresche alimentate dal concime prodotto raccogliendo con diligenza le deiezioni degli animali da soma e compostandoli, insieme agli scarti vegetali direttamente sul posto.

Non è quindi un caso che ancora oggi a Genova i fruttivendoli si chiamano "bisagnini".

In assenza di abitazioni, le piene del Bisagno non facevano vittime e i danni, messi in conto,  erano limitati; al massimo si perdeva il raccolto di fine stagione. E una volta ritirate le acque, si poteva ricominciare a ripiantare cavoli e pomodori sul nuovo terreno fertile che il buon Bisagno, con la sua momentanea irruenza, aveva trascinato a valle.

All'alba dell'ottocento, il rispetto per il torrente finì e si cominciarono a cementificare le aree dove il Bisagno di tanto in tanto si sfogava. Sorsero i quartieri della Foce, di Brignole con la stazione e la ferrovia,  di San Fruttuoso, di Marassi e il suo stadio. E il ponte di Sant'agata si accorciò progressivamente riducendo le sue arcate da 26 a otto ma continuando ad essere usato per chi si ostinava ad andare a piedi.

Mentre il ponte era progessivamente interrato nei nuovi quartieri, il Bisagno era coperto ( tombinato) dalla stazione  Brignole alla Foce e  negli anni novanta,  nella parte più alta  a Marassi, davanti allo stadio.

Il vecchio ponte romanico di Sant'Agata, che nel corso di secoli, aveva superato brillantemente fortissime alluvioni, superò indenne anche quella del 1970, ma non ce la fece con quella del 1996 durante la quale  perse quattro delle sue arcate, portate via dalla corrente.



Era obbigatorio, in nome dello sviluppo, cementificare l'alveo del Bisagno?

Certamente no!

Ponti via via più moderni avrebbero permesso di fare circolare mezzi e persone sulle aree giolenari e la città si sarebbe comunque ampliata in zone, forse meno remunerative dal punto di vista edilizio, ma certamente più sicure.

Se una classe dirigente illuminata avesse fatto queste scelte ora non saremmo a piangere, ogni 20 anni, i vecchi e i nuovi morti e i vecchi e  nuovi danni alle cose.

Ma sembra che la lezione del tragico 4 novembre 2011 non sia stata ancora capita e in Regione si scalpita per riprendere le costruzioni in alveo  e per ridurre le distanze di sicurezza.

Se non esiste il coraggio di bloccare il cemento, un rimedio a questa follia ci sarebbe: far pagare ai proprietari terrieri e ai costruttori, una pesante tassa sul rischio di esondazione, a piena copertura dei futuri danni agli uomini e alle cose che certamente le future alluvioni, sempre più frequenti, creeranno

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