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mercoledì 29 gennaio 2020

L'archeo-rifiutologo: Il "tesoretto" etrusco a Baratti



Fig. 1 Ombra della sera. Volterra  III sec aC 
Gli etruschi svilupparono una intensa attività, basata sulla estrazione dei metalli dalle ricche miniere dell'Elba, dalla loro fusione e lavorazione.

L'isola d'Elba e la Toscana erano ricche di minerali di rame, argento, piombo e ferro che gli antichi etruschi impararono ad estrarre, fondere e lavorare con grande estro e capacità artistiche 

La figura 1 mostra una singolare statua etrusca in bronzo, proveniente da Volterra e datata al III secolo aC.

La fortuna degli etruschi furono le miniere di ematite (ossido di ferro) presenti nell'isola d'Elba. 

Da queste miniere, fin dal VI secolo aC, probabilmente per ridotta disponibilità di legna da ardere sull'isola, il minerale estratto fu trasferito sulla vicina costa, nel golfo di Baratti, nei pressi della attuale Populonia. 




In un'area che potremmo definire industriale, l'ematite, alternata a strati carbone di legna, era inserita in rudimentali forni a tino fatti di argilla (Fig. 2), alti circa un metro, con un diametro di cinquanta centimetri.

Caricati dall'alto, la combustione del carbone all'interno dei forni era alimentata dal basso, verosimilmente con aria soffiata da appositi mantici.


Fig. 2 Ricostruzione di forno etrusco per la produzione di ferro

Le temperature che si potevano raggiungere in questi forni (1.100-1.300 °C) non permetteva la fusione del ferro ma solo la riduzione dell'ossido di ferro a ferro metallico che, una volta spento e demolito il forno, si ritrovava come massa metallica spugnosa nella base del forno (Fig. 3).

In base alla quantità di scorie accumulate, si stima che a Populonia ci possa essere stata una produzione annuale di ferro che al massimo poteva ammontare a 8.300 tonnellate e per questo ci dovevano essere, contemporaneamente in funzione 3.200 forni del tipo schematizzato nella Fig.3.

E per produrre tutto questo ferro, ci volevano 77.000 tonnellate di carbone di legna, prodotte in carbonaie costruite nei boschi intorno a Populonia, utilizzando 270.000 tonnellate/anno di legname, la produzione annuale di un bosco di 770 chilometri quadrati.

Si ipotizza che durante la gestione etrusca, la "risorsa bosco" sia stata utilizzata in modo durevole, non così nella gestione romana.




Fig. 3 Sezione di forno etrusco
La successiva operazione di battittura a caldo sull'incudine del ferro, eliminava le scorie della lavorazione e ne permetteva la sagomatura nella forma desiderata, trasformando, con successive operazioni di fucinatura, forgia e martellate, il ferro dolce, in ferro duro ( acciaio)  idoneo per produrre robuste lance e spade.

Questa attività si protrasse per diversi secoli, anche ad opera dei romani che con il ferro etrusco, adeguatamente temprato,   realizzarono i loro gladi, utilizzati con micidiali risultati, rispetto alle fragili armi in ferro dolce degli avversari, sia nelle guerre galliche che in quelle puniche.




Tuttavia, le conquiste romane permisero a questo popolo, lo sfruttamento delle più ricche miniere di ferro presenti in Spagna, Macedonia, Britannia e in questo modo si avviò il declino dell'area industriale di Populonia che Strabone, nel I seolo d.C., trovò abbandonata.

Si stima che in  5 - 6 secoli di attività, a Populonia siano state prodotte da 300.000 a 350.000 tonnellate di ferro, con picchi di produzione tra  1.000 e 8.000 tonnellate anno.
Fig. 4 Cumuli di scorie di ferro etrusche, sulla riva del mare di Baratti

Questa stima è stata resa possibile dalle valutazioni sul volume del  cumulo di scorie prodotte dalla lavorazione del ferro etrusco, alto una ventina di metri, su una superficie di 200.000 metri quadrati sulle rive del golfo di Baratti ( Fig. 4).

Una quantità di scorie stimata in 2,5 milioni di tonnellate, una vera e propria discarica di scarti industriali, cresciuta progressivamente in 500 anni di attività estrattiva.

Oggi questa montagna non c'è più e il singolare motivo di questo fatto è la bassa efficenza di estrazione del ferro dal minerale, ottenibile  con i forni a tino degli etruschi.

Fig. 5 Recupero del ferro dai minerali dai forni etruschi ai moderni altiforni

La Fig. 5 mostra come, fatto cento la quantità di ferro presente nel minerale, i forni etruschi riuscissero ad estrarre solo il 16 per cento del metallo mentre, gran parte, oltre 80%, rimaneva intrappolata nelle scorie, sotto forma di minerali di ferro che la tecnica etrusca non riusciva ad estrarre.

L'efficenza di estrazione del metallo, nei secoli successivi  è andata progressivamente aumentando e, con l'avvento dei moderni altiforni,  alimentati a carbon coke, si riesce a recuperare il 96% del ferro presente nel minerale trattato.

E furono proprio questi altiforni, costruiti a Piombino che, a partire dal 1921, a seguito delle difficoltà di approvvigionamento post belliche e delle "inique" sanzioni degli anni 30, fino al 1960, furono alimentati con le scorie etrusche accumulate a Baratti, permettendo il recupero e la produzione di oltre 300.000 tonnellate di acciaio usate dalle industrie italiane, una quantità di poco inferiore alla produzione annuale delle acciaierie di Genova Cornigliano.

Un bell'esempio di economia circolare, differita di alcune migliaia di anni!

E il riuso di tutti questi scarti che gli etruschi e i romani avevano accuratamente accumulato, giorno dopo giorno, sul terreno, una volta rimossi,  offrì un'insospettabile sorpresa: le antiche tombe della necropoli di Populonia, ricoperte, senza apparente scrupolo, dalle scorie prodotte dai loro eredi, gli  instancabili minatori e fabbri etruschi e romani.



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