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venerdì 24 gennaio 2020

L'archeo-rifiutologo: il monte di cocci a Roma



A Roma, nel quartiere Testaccio, sorge un "ottavo colle", opera dell'uomo, ma di dimensioni non meno importanti dei sette colli su cui sorse la città imperiale.

Alto 36 metri, su una superficie di 22.000 metri quadrati e con un volume di 580.000 metri cubi, è fatto interamente di cocci, pezzi di anfore di simili dimensioni, accatastati in bell'ordine.

Strati di coccio del monte Testaccio


Anfore e cocci dagli scavi archeologici all'interno del Monte Testaccio 


Si stima che, per realizzare questo monte, ci siano volute 53 milioni di anfore fatte a pezzi,  a partire dal primo secolo avanti C.,  fino al 250 dopo C., un accumulo avvenuto nel corso di tre secoli.

Ma se una valutazione superficiale può far pensare che si tratti di una antica discarica, testimonianza che anche Roma antica aveva problemi di emergenza rifiuti, gli studi archeologici ci raccontano una storia un pò diversa.

Il fatto singolare è che il monte contiene solo cocci di un particolare tipo di anfora, simile a quello della Figura 1.

Fig. 1 Anfora Dressel 20 per il trasporto dell'olio,
In base alla classificazione delle anfore antiche, effettuata dall'archeologo Heinrich Dressel, è un anfora utilizzata esclusivamente per il trasporto marittimo dell'olio di oliva, denominata Dressel 20, con una capacità di 70 litri.

Le "etichette" incise a mano sui manici delle anfore, permettono di scoprire che la maggior parte di questo olio fosse prodotto in Spagna, nella regione anticamente denominata Betica, oggi Guadalquivir.


Fig. 2 Resti archeologici del porto fluviale sul Tevere 

E la presenza di questi cocci a poca distanza dal Tevere non è casuale: qui sorgeva uno dei porti fluviali della Roma imperiale, denominato Emporium (Fig. 2) dove navi di basso pescaggio e apposite chiatte, trainate a terra da buoi, portavano tutte le merci, arrivate via mare alla foce del Tevere, merci necessarie per sostenere una città di un milione di abitanti.

Fig 4 Ricostruzione porto sul Tevere


Nella economia della città di Roma, l'olio di oliva aveva un ruolo importante, in quanto essenziale per conservare cibo, come alimento, ma in particolare indispensabile per dar luce agli ambienti, con le lampade alimentate ad olio ( Fig. 3) di qualità, ancor oggi, definita "lampante".
Olio che, in ogni caso, anche se non di elevata qualità, bruciando non doveva fare fumo.

Fig 3 lampada ad olio

Si stima che l'antica città di Roma consumasse 7,5 milioni di litri d'olio all'anno, settanta litri per ogni abitante.




La Fig. 4 mostra una ricostruzione della area portuale presente in epoca imperiale nella attuale area del Testaccio.

La lunga struttura a pianta rettangolare in alto è il "porticus Emilia" dove erano stoccate, lavorate e vendute le mercanzie scaricate sui moli del Tevere.

In basso si nota il monte dei cocci prodotti dalla rottamazione delle anfore di olio trasportato in questi grandi magazzini.

Per quale motivo una grande anfora, la cui produzione aveva richiesto tempo, manodopera, grande quantità di legname per la sua cottura aveva un apparente destino di "usa e getta", dopo un unico viaggio via mare, dalla Spagna alle rive del Tevere?

La risposta viene dalle caratteristiche del  particolare e pregiato contenuto: l'olio di oliva.

Si presume che, appena sbarcata, l'anfora venisse vuotata in contenitori idonei per il commercio  al minuto e per il suo uso presso le abitazioni, uso che doveva avvenire rapidamente, in quanto facilmente l'olio d'oliva va incontro ad irrancidimento, il che lo rende inutilizzabile, sia come alimento che come fonte di illuminazione,  a causa della produzione di una elevata acidità, di odori sgradevole e di fumi pesanti, qualora usato nelle lampade.

Peraltro il deposito di morchie che si formava sulle pareti dell'anfora, grezze e senza vetrificazione, di fatto ne impediva il lavaggio, reso di fatto impossibile dalla particolare forma dell'anfora, molto panciuta e con un collo di piccolo diametro per ridurre il contatto dell'olio con l'aria.
La formazione di depositi e il loro irrancidimento impediva anche il riuso per il trasporto di altri alimenti che, l'olio irrancidito, avrebbe inevitabilmente avariato.

Di qui la necessità di ridurre il volume dei vasi inutilizzati e l'adozione di adeguati accorgimenti, per evitarne il trascinamento  nel Tevere, con conseguente riduzione della vitale navigabilità del fiume.

Un altro elemento, evidenziato dagli scavi archeologici, suggerisce che il Monte Testaccio fosse tutt'altro che una semplice, grande discarica incontrollata.

Gli studi hanno evidenziato che, una volta rotte le anfore e accatastati con ordine i cocci, questi fossero ricoperti di calce, un accorgimento per ridurre l'acidità e gli odori sgradevoli prodotti dal naturale processo di irrancidimento dei residui di olio.

Le stime sui consumi annuali di olio nella Roma imperiale hanno dimostrato che nella "discarica" del Testaccio, mancano importanti volumi di cocci e tutto fa ritenere che i cocci che mancano siano stati utilizzati come "cocciopesto", un importante e diffusa tecnica usata nell'edilizia romana.

La Fig. 4 mostra una pavimentazione realizzata con coccio pesto, rinvenuta a Megara Iblea (Siracusa)
nella casa di Gnaius Modius.

Fig 4. Pavimentazione in "opus signinum"  3° secolo a C 
Questa tecnica, denominata "opus signinum", dalla città di Signa, famosa per la sua produzione di anfore, utilizza cocci di terracotta, mescolati a sabbia e calce, da cui risulta una sorta di calcestruzzo molto resistente e impermeabile, usato frequentemente dai romani nelle pavimentazioni, nei canali degli acquedotti, nelle cisterne.

Pertanto, una volta che i cocci del Monte Testaccio, impregnati di olio e calce, si fossero adeguatamente "stagionati", con la mineralizzazione dei residui di olio e la loro parziale saponificazione  a seguito della reazione dell'acido oleico con la calce, dopo qualche anno dal loro trattamento,  i cocci triturati nelle dimensioni adeguate, con ulteriori aggiunte di calce e sabbia, qual miglior uso che quello di trasformarli in un ottimo ed economico calcestruzzo?

E molto probabile che proprio questo sia avvenuto per cui il Monte Testaccio potrebbe essere portato ad esempio di una antica forma di economia circolare, che solo la decadenza dell'impero romano e lo spopolamento della città impedì di utilizzate interamente  come gli antichi gestori di questa 2miniera urbana" si prefiggevano di fare.

Sullo stesso argomento:
Raccolta differenziata dell'urina a Pompei
- Toilet a secco nell'antica Roma?
- Nell'antica Roma rifiuti a zero per produrre garum.



3 commenti:

  1. interessante, suggerisco anche la lettura di questa ricerca sui "butti": Il bello dei butti. Rifiuti e ricerca archeologica a Faenza tra Medioevo ed Età Moderna"
    - http://www.micfaenza.org/it/mostre/19-il-bello-dei-butti.php
    - https://www.insegnadelgiglio.it/prodotto/il-bello-dei-butti-rifiuti/

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    1. http://www.archeobologna.beniculturali.it/mostre/faenza_butti/bello_butti.htm
      Che cos’è un butto? Come detto, con il termine “butto” intendiamo quell'insieme di ceramiche, vetri, metalli, legni, resti di pasto e altro che veniva buttato come pattume. È evidente il carico di informazioni fornite da questo tipo di immondizia. Le stoviglie ci informano sulla cucina e sulla tavola di tutti i giorni così come su quella della grandi occasioni, ossa e resti vegetali sulle abitudini alimentari, gli oggetti su alcuni aspetti dell’abbigliamento e della vita quotidiana. Gli oggetti d’uso, come gli scaldini e i pitali, sulle pratiche correnti nella vita quotidiana. Pur nella sua parzialità, il quadro ci permette di indagare alcuni aspetti che difficilmente possono essere restituiti da altre fonti.

      I rifiuti, un problema sempre attuale. Fin dal Medioevo, in molte città esistevano precise norme che si interessavano dello smaltimento dei rifiuti e che dimostrano l’esistenza di una consapevolezza del legame tra gestione dei rifiuti e controllo dell’igiene pubblica. Ciononostante, soprattutto in età medievale, le norme sono volte più a vietare la dispersione della spazzatura nei luoghi pubblici che a organizzare discariche.
      In linea di massima tutto quanto poteva essere riciclato, come il vetro o il metallo, veniva rivenduto, così come il legno, bruciato per produrre calore. I resti dei pasti erano spesso seppelliti, fungendo così da concime per l’orto. Se non si poteva procedere in questo modo o se la famiglia era particolarmente benestante -e non era quindi “ economico” avviare un riciclo- si provvedeva a smaltire in proprio i rifiuti.
      Anche se si cercava di coinvolgere i cittadini, imponendo di tenere pulite le strade davanti alle case, accadeva che i rifiuti venissero gettati più o meno dove capitava e che spesso si ricorresse ad una sorta di “fai da te” per lo smaltimento dei rifiuti. Ecco quindi che orti e giardini, pozzi, cisterne e cavità sotterrane in disuso sono riconvertiti in discariche per lo smaltimento dei rifiuti domestici.

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    2. Grazie per le informazioni. A breve altre puntate dell’ archeorifiutologo.
      E’ un tema molto interessante che merita adeguati approfondimenti

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