A Londra, alla fine del 2008, ha aperto i battenti la prima fabbrica, progettata per produrre bottiglie per la confezione di alimenti, utilizzando solo plastica post consumo.
L'impianto tratta 35.000 tonnellate all'anno di contenitori di plastica post consumo che sono trasformati in nuovi imballaggi per alimenti, di purezza adeguata a soddisfare le rigide norme a tutela della salute dei cittadini.
Partner dell'impresa nientepopodimeno che la Coca Cola che, udite -udite, ha l'obiettivi di utilizzare il 25 percento di PET riciclato per la produzione delle sue famose bottiglie in vendita sul mercato europeo e questo entro la fine del 2010. Chi sà se in questo obiettivo è compreso anche il mercato italiano.
E non crediate che questa notizia sia di poco conto.
Per raggiungere gli obiettivi di purezza necessari, non basta fare la raccolta differenziata di qualità, occorrono complesse operazione di separazione che grazie a opportune e moderne scelte tecnologiche permettono a costi competitivi di raggiungere gli obiettivi prefissati.
A quanto pare il bilancio economico è in attivo in quanto è in programma l'apertura di un'altra fabbrica di questo tipo (50.000 tonnellate /anno) nel Galles.
A quando la prima azienda italiana di riciclaggio di plastica a ciclo chiuso?
domenica 22 febbraio 2009
venerdì 20 febbraio 2009
Il Tetto Che Scotta
Dovete rifare il tetto? La vostra è una vecchia e preziosa abitazione con un bel tetto in cotto?
Non fatevi scappare l'occasione di investire bene i vostri denari. Sostituite i vecchi coppi con coppi fotovoltaici.
Oltre ad avere una copertura della casa assicurata senza problemi per i prossimi anni, per un periodo altrettanto lungo, assicurerete a voi e ai vostri eredi una fonte di energia pulita, a copertura dei vostri fabbisogni elettrici.
Il mercato offre una vasta gamma di tegole e coppi con incorporate celle fotovoltaiche e i loro collegamenti elettrici. E ora sono disponibili tegole fotovoltaichecon speciali trattamenti delle superfici che le mimetizzano perfettamente con tegole tradizionali.
E dopo Germania e Giappone, tegole fotovoltaiche sono finalmente prodotte anche in Italia.
Una speciale menzione, la ditta di Anagni che ha brevettato una tegola fotovoltaica in terracotta che si integra perfettamente nella forma e nel colore con i coppi tradizionali fatti della stessa materia.
E' da sperare che burocrazia e Sovraintendenze alle Belle Arti si accorgano presto della innovazione, per permettere anche a chi abita in case "antiche" di adattarsi, senza stravolgimenti estetici, alle nuove tecnologie.
Da parte mia farò in modo che anche Italia Nostra accetti questa rivoluzione.
Non fatevi scappare l'occasione di investire bene i vostri denari. Sostituite i vecchi coppi con coppi fotovoltaici.
Oltre ad avere una copertura della casa assicurata senza problemi per i prossimi anni, per un periodo altrettanto lungo, assicurerete a voi e ai vostri eredi una fonte di energia pulita, a copertura dei vostri fabbisogni elettrici.
Il mercato offre una vasta gamma di tegole e coppi con incorporate celle fotovoltaiche e i loro collegamenti elettrici. E ora sono disponibili tegole fotovoltaichecon speciali trattamenti delle superfici che le mimetizzano perfettamente con tegole tradizionali.
E dopo Germania e Giappone, tegole fotovoltaiche sono finalmente prodotte anche in Italia.
Una speciale menzione, la ditta di Anagni che ha brevettato una tegola fotovoltaica in terracotta che si integra perfettamente nella forma e nel colore con i coppi tradizionali fatti della stessa materia.
E' da sperare che burocrazia e Sovraintendenze alle Belle Arti si accorgano presto della innovazione, per permettere anche a chi abita in case "antiche" di adattarsi, senza stravolgimenti estetici, alle nuove tecnologie.
Da parte mia farò in modo che anche Italia Nostra accetti questa rivoluzione.
mercoledì 18 febbraio 2009
Riciclo In Porto
Il COMIECO, consorzio per il riciclaggio della carta, si è "divertito" ad indagare quanto questa pratica sia comune nei porti e negli aeroporti italiani.
Il risultato è stato molto deludente; la palma (si fa per dire ) del riciclo portuale è di Napoli con il 4 e rotti per cento di riciclo. Un po meglio gli aeroporti, ma anche in questo caso siano lontani anni luce dagli obiettivi di legge.
Eppure questi particolari ambienti producono direttamente con le proprie strutture a terra e indirettamente con i rifiuti prodotti da navi ed aerei quantità tutt'altro che trascurabili di rifiuti assimilabili a quelli urbani.
Per fare un esempio, il porto di Genova, nel 2006, ha prodotto 28.300 metri cubi di rifiuti solidi e 38.000 metri cubi di rifiuti liquidi. A palmi, 50.000 tonnellate di rifiuti, più del 13% dell'intera produzione genovese.
Sia nei porti che negli aeroporti si adottano piani di gestione per la raccolta e lo smaltimento che nella maggior parte di casi si appoggiano alla discarica o all'inceneritore più vicino.
Pare che nessuno stia pensando alla possibilità di integrazione di servizi di corretta gestione dei materiali post consumi prodotti nei porti e negli aeoporti, con analoghi servizi a favore della città che li ospita.
In altre parole, cosa vieta che impianti di selezione, riciclo, compostaggio, trattamenti meccanico biologici a servizio di rifiuti prodotti nel porto e nell'aeroporto, siano realizzati all'interno di queste aree e messe, in parte, a servizio di materiali post consumo prodotti dalla città?
La domanda non mi sembra peregrina, per il semplice fatto che sia i porti che gli aeroporti spesso dispongono degli spazi, che mancano in città, idonei per ospitare questi impianti che nessuno vuole sotto le finestre. E questo è particolarmente vero per le città liguri (Genova, La Spezia, Savona) a stretto contatto con i loro porti e con i monti subito alle loro spalle.
L'uso di aree portuali per le operazioni di selezione dei materiali post consumo ha un'altro vantaggio, quello di ridurre le distanze dal punto di trattamento a quello di carico per l'invio (via mare) dei materiali selezionati (carta, vetro, plastica, metalli) o lavorati (compost) ai luoghi di utilizzo o di ulteriore lavorazione.
E' proprio quello che succede a San Francisco, nel cui porto si trova l'impianto di selezione degli scarti raccolti in modo differenziato nella città.
C'è infine un'altra interessante opportunità per la localizzazione in aree portuali di impianti di trattamento anaerobico degli scarti umidi prodotti dalle navi, dall'attività di trasporto e dalla città ospitante: l'energia elettrica prodotta con il biogas ottenuto, potrebbe essere utilizzato dalle navi all'attracco per alimentare i servizi di bordo; in questo modo le stesse navi potrebbero spegnere molti dei loro generatori diesel che certamente peggiorano la qualità dell'aria della città ospitante
Il risultato è stato molto deludente; la palma (si fa per dire ) del riciclo portuale è di Napoli con il 4 e rotti per cento di riciclo. Un po meglio gli aeroporti, ma anche in questo caso siano lontani anni luce dagli obiettivi di legge.
Eppure questi particolari ambienti producono direttamente con le proprie strutture a terra e indirettamente con i rifiuti prodotti da navi ed aerei quantità tutt'altro che trascurabili di rifiuti assimilabili a quelli urbani.
Per fare un esempio, il porto di Genova, nel 2006, ha prodotto 28.300 metri cubi di rifiuti solidi e 38.000 metri cubi di rifiuti liquidi. A palmi, 50.000 tonnellate di rifiuti, più del 13% dell'intera produzione genovese.
Sia nei porti che negli aeroporti si adottano piani di gestione per la raccolta e lo smaltimento che nella maggior parte di casi si appoggiano alla discarica o all'inceneritore più vicino.
Pare che nessuno stia pensando alla possibilità di integrazione di servizi di corretta gestione dei materiali post consumi prodotti nei porti e negli aeoporti, con analoghi servizi a favore della città che li ospita.
In altre parole, cosa vieta che impianti di selezione, riciclo, compostaggio, trattamenti meccanico biologici a servizio di rifiuti prodotti nel porto e nell'aeroporto, siano realizzati all'interno di queste aree e messe, in parte, a servizio di materiali post consumo prodotti dalla città?
La domanda non mi sembra peregrina, per il semplice fatto che sia i porti che gli aeroporti spesso dispongono degli spazi, che mancano in città, idonei per ospitare questi impianti che nessuno vuole sotto le finestre. E questo è particolarmente vero per le città liguri (Genova, La Spezia, Savona) a stretto contatto con i loro porti e con i monti subito alle loro spalle.
L'uso di aree portuali per le operazioni di selezione dei materiali post consumo ha un'altro vantaggio, quello di ridurre le distanze dal punto di trattamento a quello di carico per l'invio (via mare) dei materiali selezionati (carta, vetro, plastica, metalli) o lavorati (compost) ai luoghi di utilizzo o di ulteriore lavorazione.
E' proprio quello che succede a San Francisco, nel cui porto si trova l'impianto di selezione degli scarti raccolti in modo differenziato nella città.
C'è infine un'altra interessante opportunità per la localizzazione in aree portuali di impianti di trattamento anaerobico degli scarti umidi prodotti dalle navi, dall'attività di trasporto e dalla città ospitante: l'energia elettrica prodotta con il biogas ottenuto, potrebbe essere utilizzato dalle navi all'attracco per alimentare i servizi di bordo; in questo modo le stesse navi potrebbero spegnere molti dei loro generatori diesel che certamente peggiorano la qualità dell'aria della città ospitante
lunedì 16 febbraio 2009
Navi Ibride
Nonostante la mia piccola esperienza di vela, mi meraviglia sempre constatare come l'umanità fino alla metà dell' 800' non abbia avuto problemi a viaggiare in lungo e in largo per tutti gli Oceani, sfuttando solo la forza del vento.
Date un'occhiata alla rotta del Beagle che, due secoli fa, in circa due anni, portò Darwin a fare il giro del mondo e ritorno.
Il ritorno dei grandi velieri è oggi impensabile, se non altro per il costo della manodopera ( gli equipaggi necessari per le manovre) , e per le gigantesche dimensioni delle attuali navi.
Tuttavia, i costi crescenti del petrolio stanno facendo aguzzare l'ingegno dei progettisti e l'utilizzo del vento sta tornando anche nelle nuove navi, spesso in forma bizzarra, anche se efficace.
Su di una nave da trasporto, la Beluga Skysail, la vela è stata sostituita da un grande aquilone (160 metri quadratI) ancorato a prua. Con il vento in poppa l'aquilone viene aperto e il fatto che esso va a catturare il vento ben più in alto del pennone della nave, è certamente un fattore importante per la quantità di energia che, a parità di superfice "velica" , può essere utilizzata.
E al termine del suo primo viaggio sperimentale la nave ad aquilone ha potuto documentare un significativo risparmio di carburante, pari al 20%.
Una soluzione più interessante, in quanto di possibile applicazione su tutte le nuove imbarcazioni, è quella adottata dalla E-Ship 1, varata pochi giorni or sono, nel porto di Lindenau (Germania).
La nave, con una stazza di 10.500 tonnellate ed adibita per il trasporto di generatori eolici, ha rispolverato un'invenzione del 1924, a firma del fisico tedesco Anton Flettner che, in quell'anno realizzò la prima nave a propulsione eolica, grazie all'effetto Magnus, descritto da un altro fisico tedesco, Heinrich Gustav Magnus.
La nave di Flettner, al posto delle vele aveva due alti cilindri, messi in rotazione con un apposto motore.
In base all'effetto Magnus, un cilindro in rotazione in un flusso d'aria ( il vento) sviluppa una forza nella direzione perpendicolare a quella di provenienza del vento, per cui, con vento al largo, la nave procede dritta in prua.
L'idea di Fletter fu ripresa da Costeau che usò una variante di questa idea come propulsore della sua ultima nave, l' Alcyone, con ottimi risultati.
Nell'immediato non se fece nulla di più, visti i bassissimi costi del petrolio, ma oggi, nonostante la momentanea riduzione dei prezzi del petrolio, l'idea di Flettner è stata rispolverata nella E-ship 1 dotata a prua e a poppa di due + due torri cilindriche, alte 25 metri e con diametro di quattro metri.
Grazie a questi quattro rotori a vento, all'efficente motore diesel e alla idrodinamica dello scafo, ci si aspetta una riduzione del 30% dei consumi di combustibile rispetto a navi tradizionali.
Ma anche qui si può fare molto per diminuire l'uso di fonti energetiche non rinnovabili.
Notizia di questi giorni il varo di una nave mercantile giapponese adibita al trasporto di auto che, grazie a pannelli fotovoltaici posizionati sulla tolda, riesce a sopperire all'energia utile per il funzionamento dei servizi di illuminazione di bordo.
La nave è l'Auruga Leader , da 60.000 tonnellate e l'impianto fotovoltaico di cui è stata dotata consta di 328 pannelli con una potenza di picco di 40 chilowattore che dovrebbero coprire quasi il 6% dei suoi consumi elettrici.
Rispetto ai consumi complessivi, in particolari a quelli per la navigazione, è poca cosa, ma l'uso di fonti di energia rinnovabile nelle grandi navi da carico è un fatto importante per sanare un problema del trasporto marittimo: l'inquinamento atmosferico delle aree portuali durante le fasi di carico e scarico.
Anche una nave mercantile, un traghetto, quando sono fermi in porto, tengono accesi alcuni motori diesel che servono a produrre l'elettricità per diverse funzioni che restano attive anche quando la nave è ferma: illuminazione, condizionamento delle cabine; e i fumi immessi in atmosfera sono tutt'altro che trascurabili, viste le dimensioni in gioco e le potenze elettriche necessarie.
Questo problema potrebbe essere in gran parte ridotto se la nave è progettata per avere una autosufficenza energetica a copertura dei suoi servizi, basata su fonti energetiche rinnovabili. Pannelli fotovoltaici vanno certamente bene, ma certamente si può pensare anche ad impianti eolici con sistemi integrati solare-eolico, come già avviene su numerose barche a vela.
Infine butto là un'idea per le grandi navi da crociera che devono gestire grandi quantità di scarti di cibo (sia primari che secondari ) di migliaia di passeggeri: nessuno ha pensato di dotarle di impianti di digestione anaerobica con possibilità di utilizzo del biogas a copertura di una parte dei consumi energetici di bordo?
Se la cosa vi sembra strana, vi posso assicurare che sulle petroliere usate per trasporti transoceanici , in un angoletto, è previsto un impianto di compostaggio degli scarti di cucina; impianto che alimenta con il compost prodotto un orto di bordo utilizzato per fornire di ortaggi freschi l'equipaggio e che da anche la possibilità, durante la lunga navigazione, di utilizzare in modo divertente e proficuo, il tempo libero dei marinai con il pollice verde.
Date un'occhiata alla rotta del Beagle che, due secoli fa, in circa due anni, portò Darwin a fare il giro del mondo e ritorno.
Il ritorno dei grandi velieri è oggi impensabile, se non altro per il costo della manodopera ( gli equipaggi necessari per le manovre) , e per le gigantesche dimensioni delle attuali navi.
Tuttavia, i costi crescenti del petrolio stanno facendo aguzzare l'ingegno dei progettisti e l'utilizzo del vento sta tornando anche nelle nuove navi, spesso in forma bizzarra, anche se efficace.
Su di una nave da trasporto, la Beluga Skysail, la vela è stata sostituita da un grande aquilone (160 metri quadratI) ancorato a prua. Con il vento in poppa l'aquilone viene aperto e il fatto che esso va a catturare il vento ben più in alto del pennone della nave, è certamente un fattore importante per la quantità di energia che, a parità di superfice "velica" , può essere utilizzata.
E al termine del suo primo viaggio sperimentale la nave ad aquilone ha potuto documentare un significativo risparmio di carburante, pari al 20%.
Una soluzione più interessante, in quanto di possibile applicazione su tutte le nuove imbarcazioni, è quella adottata dalla E-Ship 1, varata pochi giorni or sono, nel porto di Lindenau (Germania).
La nave, con una stazza di 10.500 tonnellate ed adibita per il trasporto di generatori eolici, ha rispolverato un'invenzione del 1924, a firma del fisico tedesco Anton Flettner che, in quell'anno realizzò la prima nave a propulsione eolica, grazie all'effetto Magnus, descritto da un altro fisico tedesco, Heinrich Gustav Magnus.
La nave di Flettner, al posto delle vele aveva due alti cilindri, messi in rotazione con un apposto motore.
In base all'effetto Magnus, un cilindro in rotazione in un flusso d'aria ( il vento) sviluppa una forza nella direzione perpendicolare a quella di provenienza del vento, per cui, con vento al largo, la nave procede dritta in prua.
L'idea di Fletter fu ripresa da Costeau che usò una variante di questa idea come propulsore della sua ultima nave, l' Alcyone, con ottimi risultati.
Nell'immediato non se fece nulla di più, visti i bassissimi costi del petrolio, ma oggi, nonostante la momentanea riduzione dei prezzi del petrolio, l'idea di Flettner è stata rispolverata nella E-ship 1 dotata a prua e a poppa di due + due torri cilindriche, alte 25 metri e con diametro di quattro metri.
Grazie a questi quattro rotori a vento, all'efficente motore diesel e alla idrodinamica dello scafo, ci si aspetta una riduzione del 30% dei consumi di combustibile rispetto a navi tradizionali.
Navi ibride 1
Dal punto di vista energetico, il trasporto merci via mare è uno dei più efficienti.Ma anche qui si può fare molto per diminuire l'uso di fonti energetiche non rinnovabili.
Notizia di questi giorni il varo di una nave mercantile giapponese adibita al trasporto di auto che, grazie a pannelli fotovoltaici posizionati sulla tolda, riesce a sopperire all'energia utile per il funzionamento dei servizi di illuminazione di bordo.
La nave è l'Auruga Leader , da 60.000 tonnellate e l'impianto fotovoltaico di cui è stata dotata consta di 328 pannelli con una potenza di picco di 40 chilowattore che dovrebbero coprire quasi il 6% dei suoi consumi elettrici.
Rispetto ai consumi complessivi, in particolari a quelli per la navigazione, è poca cosa, ma l'uso di fonti di energia rinnovabile nelle grandi navi da carico è un fatto importante per sanare un problema del trasporto marittimo: l'inquinamento atmosferico delle aree portuali durante le fasi di carico e scarico.
Anche una nave mercantile, un traghetto, quando sono fermi in porto, tengono accesi alcuni motori diesel che servono a produrre l'elettricità per diverse funzioni che restano attive anche quando la nave è ferma: illuminazione, condizionamento delle cabine; e i fumi immessi in atmosfera sono tutt'altro che trascurabili, viste le dimensioni in gioco e le potenze elettriche necessarie.
Questo problema potrebbe essere in gran parte ridotto se la nave è progettata per avere una autosufficenza energetica a copertura dei suoi servizi, basata su fonti energetiche rinnovabili. Pannelli fotovoltaici vanno certamente bene, ma certamente si può pensare anche ad impianti eolici con sistemi integrati solare-eolico, come già avviene su numerose barche a vela.
Infine butto là un'idea per le grandi navi da crociera che devono gestire grandi quantità di scarti di cibo (sia primari che secondari ) di migliaia di passeggeri: nessuno ha pensato di dotarle di impianti di digestione anaerobica con possibilità di utilizzo del biogas a copertura di una parte dei consumi energetici di bordo?
Se la cosa vi sembra strana, vi posso assicurare che sulle petroliere usate per trasporti transoceanici , in un angoletto, è previsto un impianto di compostaggio degli scarti di cucina; impianto che alimenta con il compost prodotto un orto di bordo utilizzato per fornire di ortaggi freschi l'equipaggio e che da anche la possibilità, durante la lunga navigazione, di utilizzare in modo divertente e proficuo, il tempo libero dei marinai con il pollice verde.
giovedì 5 febbraio 2009
Diossine al Suolo
Fin dal 1998, un gruppo di ricercatori Belgi ha proposto un diverso e più corretto modo per valutare i pericoli ambientali delle emissioni di diossine.
Invece di misurare quanta diossina c'è nei fumi di un camino, come prevede l'attuale normativa, il loro standard di qualità si basa sulla quantità di diossine che giornalmente si deposita al suolo e questo valore , se rispettato, garantisce che la dose giornaliera di diossine da parte chi mangia ortaggi o latte e carne prodotti dal quel campo, sia inferiore alla dose tollerabile giornaliera attualmente in vigore: 2 picogrammi per chilo di peso.
Questo sistema di misura è scientificamente più corretto in quanto si sa benisssimo che il 90 % delle diossine che assumiamo giornalmente vengono dai nostri alimenti e solo il resto dall'aria inquinata che respiriamo.
Nonostante ciò, l'Unione Europea non ha ancora adottato ufficialmente questo sistema di monitoraggio.
Recentemente (2008) gli stessi autori hanno aggiornato le loro stime, contando, oltre alle diossine, anche i Policlorodifenili (PCB), composti che hanno un effetto tossico simile alle diossine.
Il nuovo standard di qualità di una deposizione giornaliera "sicura" è di 21 picogrammi di diossine per metro quadro ( valore medio stimato in base alla deposizione di un mese intero).
Dalle parti di Taranto, misure sulle diossine depositate al suolo, effettuate nel corso del 2008 hanno fatto registrare "piogge" giornaliere di diossine e PCB con valori compresi tra 6 e 47 picogrammi per metro quadrato di terreno ( valore medio di misure di durata mensile) ( Fonte ARPA Puglia) .
I maggiori livelli di inquinamento nel quartiere di Tamburi, a ridosso dell'area industriale di Taranto.
Per quanto ne sappiamo, non esiste nessun tipo di misura di questo tipo a Brescia, dove le fonti industriali di diossina e PCB abbondano e dove i modelli diffusionali stimano ricadute di diossine pari a quelle di Taranto.
Per maggiori dettagli vi rimando allegato documento su Diossine, Ambiente e Salute che è stato aggiornato in base a queste informazioni che ho ricevuto dagli amici dell'ARPA Puglia.
diossine 2009
Invece di misurare quanta diossina c'è nei fumi di un camino, come prevede l'attuale normativa, il loro standard di qualità si basa sulla quantità di diossine che giornalmente si deposita al suolo e questo valore , se rispettato, garantisce che la dose giornaliera di diossine da parte chi mangia ortaggi o latte e carne prodotti dal quel campo, sia inferiore alla dose tollerabile giornaliera attualmente in vigore: 2 picogrammi per chilo di peso.
Questo sistema di misura è scientificamente più corretto in quanto si sa benisssimo che il 90 % delle diossine che assumiamo giornalmente vengono dai nostri alimenti e solo il resto dall'aria inquinata che respiriamo.
Nonostante ciò, l'Unione Europea non ha ancora adottato ufficialmente questo sistema di monitoraggio.
Recentemente (2008) gli stessi autori hanno aggiornato le loro stime, contando, oltre alle diossine, anche i Policlorodifenili (PCB), composti che hanno un effetto tossico simile alle diossine.
Il nuovo standard di qualità di una deposizione giornaliera "sicura" è di 21 picogrammi di diossine per metro quadro ( valore medio stimato in base alla deposizione di un mese intero).
Dalle parti di Taranto, misure sulle diossine depositate al suolo, effettuate nel corso del 2008 hanno fatto registrare "piogge" giornaliere di diossine e PCB con valori compresi tra 6 e 47 picogrammi per metro quadrato di terreno ( valore medio di misure di durata mensile) ( Fonte ARPA Puglia) .
I maggiori livelli di inquinamento nel quartiere di Tamburi, a ridosso dell'area industriale di Taranto.
Per quanto ne sappiamo, non esiste nessun tipo di misura di questo tipo a Brescia, dove le fonti industriali di diossina e PCB abbondano e dove i modelli diffusionali stimano ricadute di diossine pari a quelle di Taranto.
Per maggiori dettagli vi rimando allegato documento su Diossine, Ambiente e Salute che è stato aggiornato in base a queste informazioni che ho ricevuto dagli amici dell'ARPA Puglia.
diossine 2009
martedì 3 febbraio 2009
Ingegnere Fiat
Per chi non sa che cosa sia il TOTEM e ignora l'importante lavoro dell'ingegner Palazzetti, ecco la sua storia raccontata da Maurizio Pallante, nel lontano 2003.
COGENERAZIONE IN ITALIA
QUEL TOTEM NASCOSTO IN CANTINA
COGENERAZIONE IN ITALIA
QUEL TOTEM NASCOSTO IN CANTINA
I ministri europei dell'ambiente scoprono la «micro-cogenerazione» come alternativa al black-out. La storia del «Totem», il primo micro-cogeneratore nato in Italia, presso la Fiat, raccontata da MAURIZIO PALLANTE.
Un coup de théâtre. Cosa c'è di meglio per attirare l'attenzione dell'opinione pubblica? All'inizio del semestre italiano di presidenza dell'Unione europea, il ministro dell'ambiente Altero Matteoli, con il conforto del ministro dell'Industria Antonio Marzano, ha riunito informalmente i suoi colleghi europei a Montecatini per fare due chiacchiere sui problemi energetici e ambientali. E il secondo giorno ha tirato fuori dal cappello un ossimoro e una novità vecchia di 30 anni: il carbone pulito (una pallida imitazione del ghiaccio bollente e della tintarella di luna dei primi anni Sessanta, solo che quelli erano giochi e questa vorrebbe essere una cosa seria) e la micro-cogenerazione. Che è una cosa seria, ma rischia, per come è stata presentata, di diventare uno scherzo. Il giorno dopo su tutti i giornali la notizia è stata presentata come il «fai da te dell'energia» (caspita che coordinamento!). Dal minimo comune multiplo del bricolage, ogni giornalista se l'è poi farcita con la sua salsa: c'è chi l'ha messa sui tetti delle case (impianti da 350 kW a 2 MW, ma qualcuno ha idea di cosa significa?) e chi, tagliando un «co» (un semplice «co», che sarà mai?), senza rendersi conto di ciò che faceva, l'ha derubricata a microgenerazione. È proprio il caso di dirlo: la co-generazione, chi era costei? E la micro-cogenerazione, che sembra uno scioglilingua? Ne abbiamo parlato con una persona che se ne intende, l'ingegner Mario Palazzetti, una sorta di Archimede Pitagorico della tecnologia applicata alla riduzione dell'impatto ambientale (molti dei suoi 80 brevetti sono di tecnologie non energivore e non inquinanti), che con queste credenziali non poteva trovare ascolto nel nostro sistema industriale, per il quale il solo fine delle innovazioni di processo è di accrescere la produttività tagliando posti di lavoro e il solo fine delle innovazioni di prodotto è di accrescere la dipendenza umana da oggetti sempre più banali. A Palazzetti per molti anni è stata assegnata la responsabilità dei sistemi termotecnici del Centro Ricerche Fiat, dove ha avuto risorse economiche, capi e collaboratori di grande qualità, ma l'invenzione della micro-cogenerazione l'aveva fatta trent'anni fa eppure non solo non è mai stata utilizzata (dato reale), ma è stata tenuta accuratamente nascosta come accadeva coi figli della colpa (dato fortemente sospetto).
«Nella primavera del 1973 - risponde Palazzetti a queste mie considerazioni - qualche mese prima che scoppiasse la prima crisi energetica in seguito alla guerra del Kippur, il gruppo di lavoro che coordinavo realizzò il primo micro-cogeneratore, che battezzammo Totem: Total energy module. La nostra iniziativa si collocava nel clima culturale suscitato dalla pubblicazione del rapporto del Club di Roma sui limiti dello sviluppo. In quel periodo in Fiat si confrontavano due linee strategiche sui problemi energetici. C'era chi puntava sulla tecnologia nucleare e chi sulle fonti alternative. Noi eravamo al di fuori di entrambe le logiche perché ritenevamo che fosse più importante, sia per l'ambiente, sia per lo sviluppo tecnologico e industriale, porre l'attenzione non sulle fonti, ma sull'efficienza energetica. Partivamo dal presupposto che dovunque si accenda un fuoco, una civiltà tecnologicamente evoluta non può limitarsi a utilizzarne il calore, poiché prima se ne può sfruttare la capacità di sviluppare una potenza motrice e dopo, quando la sua temperatura si è abbassata e non è più in grado di svolgere un lavoro, si può utilizzare per usi termici il calore residuo. La co-generazione è quindi la generazione contemporanea di energia meccanica, che viene trasformata in energia elettrica mediante un alternatore, e di energia termica da un unico processo di combustione».
«Il Totem - continua Palazzetti - utilizzava un motore da 903 centimetri cubi alimentato a gas naturale, o a biogas, per far girare un alternatore che sviluppava una potenza elettrica di 15 kW. Quanto basta al fabbisogno medio di una ventina di appartamenti. Contemporaneamente, recuperando il calore dei gas di scarico e quello sviluppato dal motore, erogava 33.500 chilocalorie all'ora, sufficienti a riscaldare tre piccoli alloggi. Utilizzando 105 unità di energia primaria questo piccolo cogeneratore forniva 100 unità di energia derivata: 28 di elettricità e 72 di calore. Per ottenere gli stessi risultati a una centrale elettrica ne occorrevano 84 e a una caldaia a gas 100: in totale 184. Quasi un raddoppio dell'efficienza. O, se preferisci, un dimezzamento dei consumi di fonti fossili (e delle emissioni di CO2) a parità di servizi all'utenza. Il Totem è stato prodotto dalla Fiat in quantità insignificanti fino al 1980. Poi è stato ceduto a un'altra azienda e dopo altri passaggi di mano è tuttora in produzione, ma non è mai diventato l'alternativa di massa alle caldaie negli impianti di riscaldamento domestici. In pratica si può dire che non è mai esistito come prodotto industriale».
La scorsa estate ho fatto un corso di aggiornamento all'Energie und Umweltzentrum (Centro per l'energia e l'ambiente) di Springe, un ecovillaggio vicino ad Hannover, fondato alla fine degli anni Settanta. Lì, tra le tante cose che ho imparato, ho saputo che il Totem è stato il primo micro-cogeneratore ad essere stato progettato e prodotto. Un primato che, mettiamola in termini economici e non ecologici, avrebbe potuto consentire all'azienda che lo produceva di acquisire una posizione leader non solo sul mercato italiano, ma europeo. Oggi in Germania, in tutte le strutture che ho visitato durante il corso di aggiornamento, la riduzione al minimo delle emissioni di CO2 viene perseguita adottando un mix di tecnologie di efficienza energetica e fonti alternative variabile a seconda delle caratteristiche climatiche del luogo. L'unico elemento costante, che ho trovato dappertutto, è l'inserimento di un co-generatore nel mix. Ne ho visti da 6 kW elettrici (meno della metà del Totem) in piccoli gruppi di abitazioni private (ma ce ne sono anche da 3 kW, alimentati da motori a due tempi), ne ho visto uno da 100 kW in una fabbrica di pannelli solari termici a zero emissioni di CO2, ne ho visti due azionati da motori marini alimentati dal biogas sviluppato dalla fermentazione dei rifiuti organici nella discarica di Hannover. La cogenerazione è quindi una tecnologia molto versatile, che si presta ad essere applicata in situazioni e con taglie molto diverse. In Italia, prima dell'attuale riscoperta tardiva della micro-cogenerazione diffusa (per ora proclamata a parole, staremo a vedere se seguiranno i fatti) sono stati realizzati solo pochi grandi impianti abbinati a centrali termoelettriche, tant'è che nella vulgata comune di «chi se ne intende» la cogenerazione è diventata sinonimo di teleriscaldamento.
«La differenza tra il teleriscaldamento e la micro-cogenerazione diffusa non è nella grandezza dell'impianto - spiega Palazzetti - ma è qualitativa. Nelle centrali termoelettriche si produce calore ad alta temperatura per far girare le turbine collegate agli alternatori che producono energia elettrica. Per riutilizzare l'energia termica degradata che si recupera come sottoprodotto, occorre trasportarla a distanza costruendo un'apposita rete di tubi sotterranei che hanno costi d'investimento molto alti, mentre la riutilizzazione del calore avviene solo nei mesi invernali. Negli altri mesi si continua a sprecarlo, per cui il vantaggio ambientale è limitato. Invece la micro-cogenerazione diffusa sostituisce gli impianti di riscaldamento e il `sottoprodotto' è l'energia elettrica, che si può utilizzare direttamente e/o riversare in rete senza costi d'investimento perché la rete elettrica già esiste. Quindi non ci sono mai sprechi».
In effetti, in Germania gli impianti di micro-cogenerazione sono collegati alla rete così che possono riversavi i loro chilowattora nelle fasce orarie in cui la domanda totale di energia elettrica è più alta. La cessione in quelle ore è incentivata da prezzi convenienti perché in questo modo si riduce la necessità di costruire nuove centrali. Nelle altre ore gli autoproduttori consumano in proprio i chilowattora che producono, oppure spengono l'impianto. Tra i guadagni derivanti dalla vendita e i risparmi sull'acquisto di energia elettrica, i micro-cogeneratori ripagano i loro costi d'investimento in tempi accettati dal mercato, senza sovvenzioni. E, a parità di costi, contribuiscono a ridurre le emissioni di CO2 ben più delle fonti alternative. Al contrario, in Italia lo sviluppo della micro-cogenerazione diffusa è stato bloccato dagli ostacoli frapposti dall'Enel all'allacciamento alla rete, in particolare dalla predisposizione di contratti di cessione non remunerativi. L'importanza dell'inversione di rotta annunciata a Montecatini è evidenziata dalle dimensioni del programma: da 10 a 12 mila MW di potenza. L'equivalente di 15 nuove centrali da 800 MW, il 20 per cento dell'attuale potenza installata in Italia, ottenuto usando meglio il combustibile che già oggi si brucia nelle caldaie degli impianti di riscaldamento. Senza incrementare le emissioni di CO2 e senza cementificare altro territorio naturale. Ma se stanno facendo sul serio, perché vincolare l'inizio del programma con la predisposizione di una normativa che consenta di non allacciare gli impianti di co-generazione diffusa alla rete? Perché limitare la taglia minima a 350 kW, quando si può scendere a potenze molto inferiori, che possono penetrare in tutte le pieghe del sistema, fino al riscaldamento domestico?
Per Palazzetti l'importanza strategica di questa inversione di tendenza, se si realizzerà, è tale da far passare in secondo piano i limiti, che tuttavia non sottovaluta. «Dai resoconti giornalistici non si capisce bene se il distacco dalla rete sarà una possibilità o una condizione vincolante. Nel primo caso si tratterebbe di un elemento di flessibilità in più. Nel secondo di una limitazione che potrebbe disincentivare gli investimenti nella micro-cogenerazione e, quindi, ostacolare la realizzazione del programma. Molto più grave mi sembra la chiusura nei confronti di impianti inferiori ai 350 kW. Ciò significa che il target cui si rivolge il ministero dell'ambiente è costituito dalla grande distribuzione e dalla media industria, escludendo le abitazioni, che non solo rappresentano una fascia rilevante dei consumi energetici, ma con la diffusione a macchia d'olio dei condizionatori stanno fornendo quegli incrementi alla domanda di energia elettrica nei mesi estivi che hanno causato il recente black out e rischiano di causarne altri. In questo settore possono invece trovare l'applicazione più interessante i recenti sviluppi tecnologici della cogenerazione in trigenerazione, cioè in impianti che nei mesi estivi possono sostituire la produzione di energia termica con l'azionamento del compressore di un condizionatore, in modo da rinfrescare gli ambienti senza accrescere la domanda di energia elettrica».
Per produrre cogeneratori e trigeneratori occorrono la stessa tecnologia, gli stessi impianti e le stesse professionalità che occorro per produrre le automobili. Invece di far finta di credere che la nostra industria automobilistica possa tornare agli antichi splendori aumentando la flessibilità e riducendo l'occupazione, non sarebbe meglio riconvertirla in parte nella produzione di queste nuove macchine? A partire dalle taglie più piccole per favorirne una diffusione di massa? Win win dice il ministro. Se dalle parole si passerà ai fatti, sulle orme di Dumas si potrà aggiungere: Trent'anni dopo.
Bibliografia
Maurizio Pallante
il manifesto - 30 Luglio 2003
Maurizio Pallante
il manifesto - 30 Luglio 2003