Lo studio del Politecnico di Milano sulla emissione di nano-polveri da impianti di combustione, presentato il 2 dicembre 2010, permette conclusioni diverse da quelle riportate dalla stampa, pur partendo dall'analisi degli stessi risultati.
Innanzitutto, lo studio ha confermato che nelle emissioni dei termovalorizzatori, come in tutti i processi di combustione, sono presenti nanopolveri, nonostante complessi e costosi sistemi di abbattimento fumi.
In due dei tre termovalorizzatori studiati, quelli di Brescia e Milano, il numero di nanopolveri presenti nei fumi sono circa la metà delle nanopolveri in ingresso ai rispettivi impianti, ovvero le nanopolveri "normalmente" presenti nell'aria che si respira a Brescia ( 13.500 particelle per centimetro cubo) e a Milano (32.000 particelle per centimetro cubo). Si tratta di un interessante risultato, ma nei fumi del terzo termovalorizzatore studiato, quello di Bologna, la quantità di nanopolveri è da due a tre volte superiore al numero di nanopolveri presenti nell'aria di questa città.
Questa differenza potrebbe essere dovuta al diverso trattamento fumi (a umido nell'impianto di Bologna), ma comunque, in tutti i tre casi, questi trattamenti rappresentano il meglio della tecnologia oggi disponibile.
In base a questo risultato, è lecito affermare che il 33% degli impianti esaminati sta contribuendo ad un significativo aumento delle nanopolveri presenti in atmosfera, nelle rispettive aree di impatto ( la pianura Padana !). Se questo rapporto fosse lo stesso del parco inceneritori italiano (50 impianti operativi nel 2009) oggi, 16-17 termovalorizzatori stanno inquinando, con le nanopolveri da loro prodotte, il territorio sottovento ai loro camini.
Lo studio del Politecnico di Milano ha evidenziato un altro importante dato: i termovalorizzatori emettono nanopolveri, la cui composizione chimica è significativamente diversa da quella dalle nanopolveri che entrano nell'impianto. In particolare, nelle nanopolveri in uscita dai termovalorizzatori si trovano molti più metalli di quelli che si trovano nelle nanopolveri presenti nell'aria in ingresso. Questo risultato non è inaspettato, in quanto è la combustione, in particolare le alte temperature, che fa passare allo stato di vapore e di aereosol i metalli più volatili, presenti in forma solida nel combustibile.
E' possibile che questa differente composizione comporti un diverso effetto tossico e la presenza, nelle nanopolveri da termovalorizzatori, di metalli quali zinco, piombo, nichel, ferro, cromo, manganese, cobalto, vanadio non promette niente di buono per i possibili effetti sulla salute di chi respirasse queste particelle, certamente poco biocompatibili.
Infine, il risulto più interessante.
Lo studio del Politecnico di Milano ha confermato, anche per le nanopolveri, quanto la letteratura scientifica sta evidenziando con numerosi studi: tra le tecniche di trattamento dei rifiuti urbani la termovalorizzazione è quella con il più elevato impatto ambientale.
Tra i combustibili studiati (legna, gasolio, rifiuti, metano) quello che, in assoluto, ha emesso la quantità minore di nanopolveri è risultato essere il metano.
In un centimetro cubo di fumi da " termovalorizzazione " dei rifiuti , dopo trattamento, si trovano da 3.900 a 70.000 nanoparticelle; in un centimetro cubo di fumi di una caldaia alimentata a metano, e senza alcun trattamento fumi, le nanoparticelle trovate sono state 4.500, nettamente inferiori alle nanopolveri presenti nell'aria ambiente (15.000-28.000).
Pertanto, ci si può aspettare che trattamenti anaerobici delle frazioni biodegradabili ( 60% dei rifiuti urbani) e uso energetico del bio-metano così prodotto, possa produrre un impatto ambientale altrettanto trascurabile e ovviamente ancora più basso, se, come avviene negli impianti industriali alimentati a metano, i fumi, prima di essere immessi in atmosfera sono trattati con filtri a maniche.
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